In tanti adesso rischiano grosso. Ma forse serve per dare una regolata. Perché sui social aveva ragione il grande Umberto Eco…
Chi non l’ha detto almeno una volta negli ultimi anni? E’ una parola, un’offesa, che entrata nel gergo con sempre maggiore frequenza. Ma da oggi, si rischia davvero grosso. Quindi, fate molta attenzione!
La pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, infatti, parla chiaro. Ma, allo stesso tempo, farà molto discutere. Come sappiamo, infatti, le pronunce della Cassazione a volte sono al centro di moltissime polemiche. Perché, agli occhi dei profani, sembrano grottesche e sganciate dalle dinamiche reali. Ma, nonostante ciò, creano giurisprudenza. Quindi, da oggi in poi facciamo attenzione.
Come sappiamo, purtroppo, per molti i social network sono diventati una vita parallela. Sull’attendibilità di tali soggetti che discettano su Facebook, Instagram, Twitter e altre piattaforme, forse aveva ragione Umberto Eco. Il grande scrittore, poco prima di morire, aveva detto: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.
In tanti, infatti, pensano che i social siano un “porto franco”, dove poter scrivere e mostrare qualsiasi cosa. O insultare chiunque. Ma non è così. E la pronuncia della Cassazione ce lo ricorda. Non si potrà, infatti, più invocare il diritto di critica, se si supera il limite della “continenza”, che è uno dei parametri fondamentali per non essere perseguiti per diffamazione.
E, da oggi, quindi, diventa bandita una parola che negli ultimi anni abbiamo detto tutti almeno una volta. E non solo per riferirci ad adolescenti un po’ troppo frivoli e avvezzi all’apparire. Ma anche per definire adulti che, evidentemente, sui social non si comportavano da tali.
Questa la definizione della Treccani: “Nel gergo della Rete, giovane utente dei siti di relazione sociale che si caratterizza, spesso in un quadro di precaria competenza linguistica e scarso spessore culturale, per un uso marcato di elementi tipici della scrittura enfatica, espressiva e ludica (grafie simboliche e contratte, emoticon, ecc.)”.
Ebbene sì, l’epiteto “bimbominkia” non può essere utilizzato su Facebook perché definisce una persona con un quoziente intellettivo sotto la media. Lo sancisce la Suprema Corte di Cassazione. Per gli Ermellini, utilizzate tale appellativo costituisce diffamazione aggravata.
La vicenda riguarda un animalista trapanese, che sui social network sarebbe stato definito “bimbominkia”, in risposta alle sue critiche dopo la morte di un politico siciliano. Ma la donna che lo aveva definito così è stata condannata.
Il termine “bimbominkia” non si può usare sui social perché definisce una persona con un quoziente intellettivo sotto la media – spiega la Suprema corte. Nella sentenza che contiene questa indicazione, l’epiteto fu usato in un gruppo Facebook di più di duemila iscritti.
Come sappiamo, infatti, per costituirsi la diffamazione, l’insulto deve essere pronunciato (o scritto) alla presenza di terze persone.
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